La natura fa sempre ciò che è meglio per noi, per farci stare bene.
La malattia serve esattamente questo: arriva per segnalarci che qualcosa non va e quasi sempre, all’origine del problema, c’è un nostro comportamento sbagliato: nell’ alimentazione e nelle abitudini di vita, nel modo di pensare o gestire le nostre forze, le emozioni e gli affetti. Oppure nella mancanza di conoscenza di qual è la nostra natura più profonda.
C’è una sola cosa che possiamo veramente fare per guarire: dare voce e ascolto al sintomo, per comprendere appieno le ragioni profonde della malattia e potervi porre rimedio. Questo è ciò che fa la naturopatia: mantenere una buona salute e prevenire le malattie! Un buon naturopata serve a guidarvi in questa direzione, con tutti i mezzi di cui dispone. Scopo della medicina allopatica, oggi, per come è configurata e come si è evoluta, è invece l’eliminazione dei sintomi, senza ricercare una vera comprensione, ma limitandosi a trovare il meccanismo, su base organica, che sembra generare il malessere.
La medicina moderna ha grandissimi pregi, sia ben inteso: una diagnosi accuratissima e una medicina d’urgenza senza pari, ragion per cui ammiro e sostengo chi svolge questo duro lavoro, fra mille difficoltà, ahimè anche burocratiche di questi tempi. Per quanto riguarda prevenzione e cura dell’organismo attraverso un profondo riequilibrio, purtroppo, davvero non ci siamo, la medicina allopatica è ancora lontana anni luce da questo traguardo. In parole povere, in caso di incidente stradale, attacco cardiaco, parto cesareo o febbre altissima senza evidente causa o in ogni altra situazione in cui si renda necessario un intervento d’emergenza per salvare la vita, è fondamentale (e aggiungerei esclusiva) la medicina allopatica.
Così come un antibiotico è doveroso di fronte a un’infezione grave se non è altrimenti risolvibile: va preso e non si discute nemmeno.
Ma questo non è costruire salute.
La medicina naturale, e in particolare modo la naturopatia di cui mi occupo, si rivela invece essenzialmente preventiva, cioè insegna uno stile di vita orientato a mantenere integro l’organismo il più a lungo possibile, riducendo il ricorso ai farmaci di sintesi o limitandone i danni qualora sia necessario assumerli.
In caso di problemi cronici, la naturopatia può inoltre affiancare la medicina allopatica, in quanto lo stile di vita sano può influire positivamente sulla modulazione dei sintomi. La differenza fondamentale fra l’approccio naturopatico e quello allopatico consiste nell’aspetto sul quale si focalizzano: la naturopatia osserva la persona nel suo insieme (cioè corpo inclusa la dimensione genetica, cioè la costituzione ereditata, mente, energia, spiritualità, socialità, ambiente in cui viviamo, sia la nostra casa che il nostro pianeta, in quella che viene definita “dimensione olistica”) mentre la medicina allopatica concentra sempre più l’attenzione sul singolo sintomo (per cui esistono vari specialisti, dal gastroenterologo, al cardiologo, all’ortopedico, ecc.).
David Servan Scheiber racconta una bellissima storia nel suo libro l’Anticancro:
“IL PRINCIPIO TIBETANOLa mia visione della medicina ha iniziato a scricchiolare nelle vie di Dharamsala, in India, dove ha sede il governo tibetano in esilio. Nel corso di una missione umanitaria presso gli orfani tibetani, mi sono reso conto che in quella città esistevano due sistemi sanitari paralleli. Il primo faceva perno sul Dalac Hospital, un moderno istituto occidentale, con i reparti di chirurgia e radiologia (compresa l’ecografia) e i medicinali a cui siamo abituati noi. Attorno a quell’ospedale, medici formatisi in India, ma all’occidentale, oppure in GB o negli USA, praticavano nei loro studi privati la stessa medicina che era stata insegnata a me. Nelle nostre conversazioni parlavamo degli stessi testi di riferimento e ci capivamo al volo.
Sempre lì esistevano, però, anche una facoltà universitaria in cui veniva insegnata la medicina tibetana tradizionale, una manifattura che produceva rimedi ottenuti dalle piante e una schiera di medici tibetani che curavano i pazienti con metodi completamente diversi da quelli che avevo studiato io. Esaminavano il corpo come se fosse un giardino: non cercavano i sintomi della malattia, spesso evidenti, quanto piuttosto i difetti del terreno, ciò che gli mancava per difendersi dalla malattia. L’obiettivo era capire come fortificare l’organismo, ossia la terra di quel giardino, per spingerlo a combattere con le proprie risorse il disturbo che aveva portato il paziente dal medico. Non avevo mai guardato alla malattia in quell’ottica e un simile approccio mi lasciava parecchio perplesso, anche perchè i colleghi tibetani suggerivano rimedi che ai miei occhi apparivano del tutto esoterici e probabilmente inefficaci. Parlavano di agopuntura, di meditazione, di infusi e, soprattutto, di correggere l’alimentazione. Nel mio sistema di riferimento nulla di tutto ciò poteva essere veramente efficace, se non forse per dare un minimo di speranza al paziente, tenendolo occupato e lasciandogli credere che gli servisse a qualcosa… Mi domandai allora che cosa avrei fatto se fossi stato tibetano e mi fossi ammalato. Potendo scegliere fra quei due diversi approcci sanitari, quale avrei preferito? Rivolsi questa domanda a tutte le persone con cui lavoravo o che avevo l’occasione di incontrare. […] Ero convinto di mettere quelle persone davanti a un dilemma: avrebbero scelto la medicina occidentale, moderna ed efficace, o quella ancestrale – che lo era necessariamente di meno – per rispetto della tradizione? Puntualmente, tutti mi guardavano come se avessi posto una domanda assolutamente stupida. “Ma è ovvio”, era la risposta unanime, “se si tratta di una malattia acuta, come una polmonite, un infarto o un’appendicite, bisogna rivolgersi alla medicina occidentale, che ha terapie rapide ed efficaci per le crisi. Ma se si tratta di una malattia cronica è meglio rivolgersi ad un medico tibetano, che usa terapie più lente, si, ma che curano il terreno in profondità, il che a lungo termine è l’unica cosa che funziona davvero”. E il cancro? Si calcola che occorrano fra i 4 e i 40 anni perchè una prima cellula mutante possa trasformarsi in un tumore maligno. Va dunque ritenuta una malattia acuta o cronica? E che cosa facciamo noi, in occidente, per “curare il terreno”? tratto dal libro ANTI CANCRO del dott. David Servan-Schreiber” |